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Quando il vibratore scompiglia l’ordine patriarcale

Working on it

Working on it è un esperimento cinematografico tra l’inchiesta e la performance che indaga sul genere e l’identità, su come essi sono costruiti e vissuti nel posto di lavoro, nei media e nelle relazioni di prossimità.

Io ne sentii parlare entusiasticamente da Valentina (un’amica del collettivo femminista che venne in Germania per un progetto post-universitario nel 2009), ma non riuscii mai a vederlo: non ha avuto distribuzione in Italia e non si trova nemmeno da scaricare in rete, ovviamente nessun sottotitolo in italiano. Perciò, quando mi hanno detto che in questi giorni avremmo avuto la possibilità di averne una proiezione proprio qui nel paesello sassone rimasi stupita, oltre che contenta dell’opportunità di incontrare anche una delle registe: Karin Michalscki. Qui il trailer.

 Working on it  – girato in Germania nel 2008 – segue 15 storie in cui i protagonisti si raccontano e raccontano le proprie personali strategie di resistenza al sistema binario eteronormativo delle relazioni e della sessualità, ma anche delle differenze di provenienza e classe. Ad un anno dalle interviste, con le loro mani danno vita ad un luogo di sperimentazione e queerizzazione del reale nei locali di un ex-supermercato, dove prendono forma i desideri e le contraddizioni.

Ci sono delle volte in cui mi sento alienata attraverso la percezione che gli altri hanno di me”, dice una delle protagoniste del video. Qual è il ruolo che le aspettative hanno su di noi? Quanta restrizione e condizionamento agiscono le proiezioni di noi stess* nel posto di lavoro, nelle nostre relazioni familiari o amicali, ma anche in strada? E come possiamo liberarci dalla loro influenza e dal potere che hanno di definire comportamenti corretti e delineare la marginalità?

 “Quando sei in fase adolescenziale – dice Karin –, nella pubertà, la società comincia a farti una serie di pressioni su che tipo di sessualità devi avere o che tipo di look se vuoi essere trattato come un uomo o una donna. Con questo film intendiamo interrogarci sulle norme relative alla sessualità, al genere, ma anche alla “bianchezza” (whiteness), intesa come una produzione di razzismo. Tutte queste norme sono molto potenti ed anche molto violente, e noi dobbiamo lavorare ancora per metterle in discussione e interrogarci su come vengono prodotte per sovvertirle, ma dobbiamo anche chiedereci cosa facciamo noi per riprodurle”.

Il luogo di lavoro, ad esempio, dice Karin, non è soltanto un luogo in cui si producono prodotti e servizi, ma anche soggetti: in relazione al genere, all’identità sessuale e al nostro ruolo nella società. In questo senso si parla di una “duplice produttività al lavoro”: “Pauline Boudry, Brigitta Kuster, Renate Lorenz parlano di un concetto particolare: sexual labour o sexual work, in tedesco “sexual Arbeit”, perché dicono che sul posto di lavoro è importante non solo che tipo di abilità e conoscenze hai, ma anche come ti vesti, come appari e come sei percepita come persona anche in relazione alla sessualità. Tu non sei soltanto un soggetto che lavora, ma sei anche un “soggetto sessuato”. È il modo in cui le identità sono prodotte sul posto di lavoro, ma anche nella vita di tutti i giorni, anche a casa”.

Dalle interviste emerge forte e dichiarata la necessità di riappropriazione di un immaginario relativo al desiderio e ai comportamenti. La strategia per mettere in discussione – queerizzare – questo tipo di immaginario eteronormativo e binario può essere quella di giocare con le aspettative e invertire le proiezioni. Ho sempre pensato che il divertimento e il gioco abbiano un ruolo centrale nel percorso di messa in discussione di questo immaginario e nella messa in campo dei nostri desideri, che in qualche modo possano incarnare una delle vie più facili e mainstream per lavorare su certe costrizioni e operare una “liberazione”.

Ma lavorare, giocando, sull’immaginario su genere e su identità significa, ad esempio, anche lavorare sul linguaggio: in questo ambito il problema dell’identità si gioca tutto sul piano del volersi rendere visibili e dall’altro lato del voler decostruire l’identità stessa: è un tentativo di affermazione finalizzato al riconoscimento che viene sperimentato in vista di una distruzione delle stesse categorie che creano marginalità. In particolare, la lingua tedesca, come quella italiana, presenta un carattere di sessualità molto marcato: Karin parla del tedesco non tanto come di una lingua “sessuata” ma di una lingua “gendered”, ”

(…) perché in ogni frase è difficile sottrarsi all’uso di pronomi che indicano il genere. Io credo che dobbiamo prima realizzare che la nostra lingua, e il linguaggio in generale, funziona in un certo modo, e poi capire che cosa possiamo cambiare. Alcune persone hanno già pensagto a questo: per esempio Stephen Katy Hermann che lavora a Berlino ha suggerito questo segno _ che utilizzi per esempio quando usi la parola per indicare un insegnante (lehrer) e non devi decidere se è una donna o un uomo: lehrerer_in, così puoi dire non lehrerer(insegnante uomo, desinenza er al maschile) o lehererin (desinenza in al femminile), ma se hai uno spazio tra il pronome e la fine della parola ti dai tempo per capire come utilizzarla. E questo sta funzionando già per un sacco di persone. E penso che dobbiamo andare avanti con questo tipo di sperimentazioni e inventare qualcosa di nuovo.

Dal video, tra l’altro, emerge l’interessante possibilità di utilizzare alcuni pronomi personali usati nello slang tedesco per uscire dal binarismo linguistico maschio/femmina indicato da sie (lei) e er (lui), come sne, per, ons, nis, xe, ve, sim, sem, zir… Insomma: riutilizzare il presente o inventare il nuovo!

Qui in Treibhaus – un’associazione che si occupa di intercultura e discriminazioni nella umida campagna tedesca – il filmato ha suscitato un po’ di subbuglio: pochi i presenti, per lo più adolescenti, paiono interessati, fanno qualche domanda, poi tornano a giocare a biliardino. Ma più tardi, fuori, all’uscita della sala, tra una sigaretta e una birra, la discussione si accende. È la prima volta, mi spiegano, per Döbeln affrontare l’argomento in maniera così diretta. ma a quanto ho capito vuole essere solo l’inizio… Ci lavoreremo!

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